Comprendere il Panico

Gli attacchi di panico, le storie di sviluppo comuni e gli obiettivi dell'intervento psicoterapeutico

Pubblicato il   / Ansia e Depressione
Comprendere il Panico

Nel contesto clinico l’evento “panico” è vissuto dalla persona come un imprevisto e imprevedibile disagio, accompagnato da una moltitudine di sintomi ed alterazioni corporee: palpitazioni o tachicardia; sudorazione; tremori fini o grandi scosse; dispnea o sensazione di soffocamento; dolore o fastidio al petto; nausea o disturbi addominali; sensazioni di sbandamento, instabilità, testa leggera o di svenimento; derealizzazione o depersonalizzazione; paura di perdere il controllo o di impazzire; paura di morire; parestesie; brividi o vampate di calore (WHO, 1992; APA, 2014). L'attacco di panico, soprattutto quando si ripete più volte (Disturbo di Panico), può spingere la persona a condotte di evitamento: succede frequentemente che dopo uno o più attacchi di panico la persona tenda ad uscire meno di casa, almeno che non sia accompagnata o strutturi vere e proprie fobie come la fobia sociale o l’agorafobia. Tuttavia è bene ricordare che sono in tanti quelli che sperimentano attacchi di panico occasionali, manifestazioni di per sé non eccessivamente preoccupanti, le quali non richiedono di per sé un aiuto specialistico (Centro Kromos, 2014).

Il Disturbo di Panico si può presentare in persone con storie e personalità diverse, che hanno in comune, solitamente, un’oscillazione emotiva prevalente tra paura e curiosità e una organizzazione conoscitiva focalizzata sui costrutti di controllo-perdita di controllo, forza-debolezza, sicurezza-pericolo (Guidano, 1988). Si tratta di persone che comunemente presentano una tendenza a rispondere agli eventi di vita con paura, come conseguenza della costruzione di significato di questi eventi in termini di pericolo. Il nuovo è pericoloso e ciò porta l’individuo ad una percezione del mondo come rischioso e ad una percezione di sé stesso come insicuro, poco capace di affrontare la vita senza una figura protettiva. Questa “visione” delle cose, ha di per sé un valore adattivo, protettivo, in quanto permette alla persona di ordinare l’esperienza all’interno di una propria coerenza in modo da mantenere un senso di continuità individuale, di unicità e di consistenza nel tempo.

Se la realtà è percepita come una minaccia continua alternativamente per la possibilità di protezione e quella di libertà, nell’esperienza immediata di sé nel mondo è caratterizzata da condizione di precarietà: attaccamento e separazione divengono termini emotivi antitetici per cui qualsiasi separazione temporanea dalla figura protettiva è un pericolo, salvo sentirsi costretti e limitati non appena ristabilito il contatto.

Comunemente le esperienze precoci delle persone che vivono un disturbo di panico presentano da un lato un comportamento parentale iperprotettivo (il mondo è un luogo minaccioso e il bambino è debole e fragile tanto da aver paura lontano dal genitore) e rifiutante (il genitore ansioso tende ad invertire i ruoli con il bambino utilizzandolo come fonte di sicurezza e il bambino teme che qualcosa di spaventoso possa accadere al genitore e quindi gli resta vicino). Ciò interferisce o limita l’esplorazione autonoma del bambino. Da qui il bisogno di libertà e il bisogno di protezione come tendenze antitetiche che giocano un ruolo all’interno dello sviluppo dell’identità. Il disagio emotivo si localizza così negli aspetti fisici del Sé e il bambino diventa via via capace il controllare il proprio corpo escludendo selettivamente ogni attivazione che sia in grado di superare la soglia percepita di stabilità. Il controllo del disagio però si accompagna ad un senso di debolezza e fragilità emotiva che abbassa ancora la soglia di stabilità. L’equilibrio può allora essere raggiunto grazie alla capacità di escludere selettivamente il flusso sensoriale che attiva il bisogno di libertà e che innesca la paura della solitudine e della mancanza di protezione; e attraverso l’autocontrollo che consente di non elaborare le emozioni e di avvertirle come estranee alla propria esperienza soggettiva. Come meccanismo di compenso è necessario per la persona trovare un repertorio di attività neurovegetative distoniche che si offrono come diversivi e sono finalizzate a mantenere la protezione, non costrittiva, senza modificare la propria autostima e amabilità personale. La paura risulta l’emozione più strutturata e facilmente riconoscibile nella gamma emotiva, rendendo ancora più necessario l’autocontrollo e il mantenimento di una prossimità verso figure protettive. Dall’esperienza emergono però discrepanze e incongruenze: per esempio i rapporti capaci di fornire protezione divengono “difficili” da gestire sul piano emotivo; il coinvolgimento emotivo implica debolezza e dipendenza; un rapporto significativo può causare costrizione o, di contro, un senso di solitudine pervasivo. La mancanza di equilibrio nell’oscillazione tra le due dimensioni di libertà e sicurezza comporta sofferenza, la predominanza della libertà viene percepita come solitudine mentre la predominanza della sicurezza porta a sentimenti di costrizione. Così situazioni, reali o immaginarie, costruite come separazione e modificazioni affettive nella direzione di una maggiore profondità del legame divengono potenziali eventi scompensanti il sistema in quanto le modalità di controllo non riescono più a riequilibrare la dissonanza e l’attribuzione di significato diventa confusa e centrata sul corpo. Il malessere percepito in un rapporto può infatti innescare una fantasia di separazione che attiva un senso di paura e solitudine le quali favoriscono la percezione di non essere in grado di stare da soli che spaventa perché minaccia l’autonomia. La persona così si considera incapace di tollerare l’ansia e vorrebbe “eliminare” ogni attivazione neurovegetativa vissuta come disturbante, ma ciò lo pone in una “trappola” il cui effetto è proprio la temuta attivazione neurovegetativa. Oltre a ciò il “pericolo” vissuto come interno al corpo che la persona non sente più sicuro e affidabile rende pericolosa la distanza dal territorio personale inteso come legame con la persona significativa disattivando il comportamento esploratorio (Guidano, 1988).

L’intervento terapeutico in questi casi ha l’obiettivo di aiutare la persona riconoscere, capire e concettualizzare la propria coerenza di significato personale, partendo dalla comprensione di come la persona sperimenta il suo modo di essere e di arrivare ad un articolazione del significato personale tale da invalidare le nozioni di un Sé fragile e di un mondo esterno minaccioso, condurre all’accettazione della bipolarità richiesta di protezione da un lato e di libertà dall’altro e superare le difficoltà che derivano dalla sintomatologia (Centro Kromos, 2014).

Bibliografia

  • APA American Psychiatrics Association (2014). DSM-V: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina.
  • Centro Kromos (Eds.) (2014). Attacchi di panico. In Nuovi orizzonti, XI, gennaio-giugno 2014.
  • Guidano, V. (1988). La complessità del sé. Torino: Bollati Boringhieri.
  • World Health Organization (1992). ICD-10 International statistical classification of disease, injuries and causes of death. Ginevra: World Health Organization.