Sentirsi falliti in una realtà che non lascia spazio: una piaga economica, un baratro psicologico.

"Si sedette su un mondo in rovina una gioventù inquieta" - alla ricerca del nostro ruolo, tra le distorsioni del sociale.

Pubblicato il   / Ansia e Depressione
Sentirsi falliti in una realtà che non lascia spazio: una piaga economica, un baratro psicologico.

"Si sedette su un mondo in rovina una gioventù inquieta", constatò in ben altro universo Alfred de Musset.

Ma qui è altro, e ne ho scritto, molto brevemente, poco tempo fa.
E si tratta di un fenomeno che colpisce nel suo perpetuo e attuale ripetersi.

Un fenomeno triste, fatto di potenziale sprecato, di risorse perdute o "congelate" e, soprattutto, di individui (tanti), non realizzati.
L'essere umano ha un che di magnifico: una enorme, innata spinta a coltivare i propri talenti e ad impegnarsi perché essi trovino spazio e si realizzino (magnifico quando si resta guidati dall'etica!).

Si può riuscire o no, ma è insito nella nostra natura. 

E purtroppo sta capitando, da parecchio e ancora e temo anche domani, qualcosa.
Una generazione spersa in svilenti meccanismi di mercato del lavoro.

Attività precarie, senza prospettive di stabilità e crescita, con un costante senso di instabilità, attesa e non soddisfazione.

Un "prendere qualunque cosa perché non vi è altro"; un "accontentarsi", nel prezzo e nella dignità ferita, perché tanto "c'è la fila dietro di te, per qualunque ruolo".
Si tratta di sopravvivenza.

E per una persona brava in quel che fa, ancora giovane, che si impegna tanto, e tanto probabilmente ha studiato e tanto ha da dare, è un abbattimento psicologico notevole.

"Che scopo ho? Che sto facendo della mia vita? In che posso ambire? Tutto quello che ho sognato, non avverrà".

E questo è il secondo livello di problematiche più pratiche, soprattutto per chi ha famiglia o ne vorrebbe una: il non riuscire a "sganciarsi" dal nucleo originario (con tutte le dinamiche che ne derivano), il non trovare il proprio posto nel mondo, l'indipendenza economica e mentale che si dà come tappa giustamente naturale.
Il sentirsi, magari quarantenni, come degli stagisti diciottenni.

Laddove si dovrebbe iniziare a sentirsi "appagati", ci si percepisce fermi, immobili.

Da trentanovenne conosco questa realtà che ci segue, e segue anche chi è più avanti con gli anni, e chi è più indietro.

Abbiamo (i più) visto genitori fare sacrifici importanti per avere ciò che hanno avuto e hanno potuto darci: sacrifici, ma anche risultati.

Ancora oltre, abbiamo avuto nonni che addirittura hanno vissuto e superato la guerra, provando pene profonde che ci sono state risparmiate, e han posto le basi per chi sarebbe venuto dopo.

Come più volte ripeto, l'esistenza ha notevole fantasia nel colpire, e ci sono situazioni ben più drammatiche di quella che sto raccontando.

Ma ciò non toglie che anche questa situazione meriti il massimo rispetto e considerazione, poiché stiamo trattando di un fenomeno che inevitabilmente dà disagio, profondissimo malessere, costanti preoccupazioni (pragmatiche e no), fino ad ansia e disperazione.

Ed è comprensibile.

Perché si arriva, oltre al panico di non far fronte alle necessità primarie (anche se qui si tratta il risvolto psicologico), a quella considerazione che sovente compare nelle domande di chi ci scrive: "Sono un/una fallito/a".

Un decadimento della propria autostima, una rassegnazione e un senso di buio.

Quanto potenziale stiamo appunto sprecando (o facendo fuggire)?
Quanto questo esercito silenzioso sta lottando per avere un angolo nel mondo?
E penso sempre al bellissimo concetto di "resilienza", non solo scientifico.
Il sapere essere flessibili e resistere agli urti della vita.
Adattarsi e non cedere.
Funziona sempre? Ovvio che no.
È comunque necessaria per ogni "urto"? Sì.
E qui sta la nostra grandezza.

E qualcuno ora mi starà inviando pensieri "poco carini", per quelle che sembrano frasi semplicistiche, ma non lo sono. 

Non sono un guru entusiasta, ma una persona che vive nella realtà.

Pensateci bene: non si può oggettivamente modificare una situazione esterna che perdura.
Possiamo lavorare solo sul piccolo e su di noi.
Sul modo in cui percepiamo e affrontiamo le cose.

Che non significa arrendersi, illudersi, chiudere gli occhi, fingere che sia così.
Ma, proprio, accettare che così è.

Che tutto quello che possiamo fare è continuare e continuare a insistere, con la consapevolezza che non è detto che serva, ma forse alla fine qualcosa "riparte".

E, in primis (e qui, per chi lo vuole, si può collocare l'aiuto di uno psicologo, senza considerare questa parentesi uno spazio pubblicitario)... e in primis, lavorare verso la percezione di se stessi, ormai distorta e a brandelli a causa di questo tempo e questo vivere.
Perché persa la fiducia in noi,  nessun atto può servire, smarrito nel senso di impotenza.
Quindi.

Non siete falliti.
Siete persone che non hanno avuto ciò che meritavano, come spesso capita.
Finora, per lo meno.
Avete fatto sforzi per formarvi e seguire uno scopo che per ora non si vede.
Ma siete qui.
Non siete più ventenni, e spesso, quarantenni, vi tocca (per fortuna che si sono), stare ancora coi vostri genitori, con gli effetti non facili del caso.
È innaturale. Va bene, prendiamo atto di questo.
Ma, ribadisco, non siete falliti.

Magari non arriverete a dove volevate, ma insistete.
Anche se tardivamente rispetto alle aspettative, anche per voi può esservi realizzazione.
Avete tutto il diritto di sentirvi feriti, delusi, perduti, nella penombra, senza una strada, arrabbiati e spaventati.
È naturale.
Ma siete ancora sul terreno, colmo di insidie, dove la strada va scavata.
Una trincea? Metaforicamente, forse.

Quindi iniziate, se posso, con il rielaborare quel concetto di fallimento che magari adesso vi accompagna.
Certo, non vi regalerà il ruolo che vi aspettavate e meritavate.
Ma senza questa precondizione, non si può combattere.
Perché anche se vi pare di non riuscire più ad essere proattivi, le vostre risorse sono sempre lì.
E se vi è apatia e depressione allora considerate anche un aiuto professionale.

Perché se Emily Dickinson scriveva "Io abito la possibilità", esiste un altro concetto importante.

Il "Locus of Control": il modo in cui percepiamo di poter soggettivamente agire attivamente ed avere uno spessore e un ruolo che possono modificare e dare forma ai nostri giorni, piuttosto che un percepirsi come passivi e senza alcun potere nell'ambiente circostante, in balia di questo fato (Locus of Control interno ed esterno).
In tempi duri, quale può essere il punto di vista più idoneo?

Perché non siete falliti.

Non rinunciate a cercare quello che vi spetta.
Che arrivi in minima parte, e con sudore e tempo, non toglie che vi spetti.
Per la vostra dignità e senso di essere.
Essere voi, nei limiti del possibile, al massimo possibile.

Ricordate: Locus of Control, resilienza ed Emily Dickinson.

Buon viaggio.