La Creatività e il suo utilizzo nelle relazioni di cura

Alla scoperta di un potente strumento per produrre cambiamenti

Pubblicato il   / Crescita Personale
Creatività nei processi di cura

In ambito artistico, letterario e scientifico, è possibile ravvisare molteplici definizioni di “creatività”. La parola “creatività” viene evocata di fronte a processi e prodotti che si caratterizzano per originalità o innovazione e che si situano oltre gli schemi di pensiero e i comportamenti abituali e poi conosciuti. In ambito psicologico e psicoterapeutico, in particolare gestaltico, la creatività viene definita come un approccio al processo tra psicoterapeuta e paziente, si basa su flessibilità, intuizione e piacere intrinseco piuttosto che orientato alla performance (Zinker, 2018).

Per Winnicott (1971) la creatività è connessa al gioco, che egli definisce come l’attività attraverso cui il bambino e, successivamente, l’adulto, impara a negoziare tra sé e la realtà, tra interno ed esterno, bilanciando questi due poli, affinché nessuno prevarichi l’altro (Winnicott, 1971). Più recentemente, anche Zinker (2018, p. 50) ha scritto che “L’amore per il gioco è un aspetto essenziale della vita creativa”.

Il gioco, dunque, è funzionale all’equilibrio tra realtà interna ed esterna perché tale equilibrio richiede costanti rinegoziazioni, perché quando si riconosce troppo spazio alla realtà interna, ritirandosi dalla realtà e dalle relazioni, si rischia di sperimentare l’esperienza schizoide (Winnicott, 1971). Quando, invece, si investe eccessivamente sulle relazioni e sulla realtà, senza riservare adeguato spazio e tempo anche all’interiorità, si rischia l’isterilimento e l’impulsività, in quanto non si sviluppa sufficientemente la capacità di elaborazione delle proprie esperienze, che consente di trarne un significato dalle stesse e di utilizzarlo per compiere scelte e pianificare comportamenti successivi. Infine, un individuo che si focalizza eccessivamente su uno dei due poli, può avvertire una sensazione di mancanza di integrità del Sé (Winnicott, 1971). La conciliazione tra realtà esterna e interna è un processo dinamico, non una condizione statica, perché è costantemente costruita e non è mai definitiva.

Il gioco è quell’attività che contribuisce a tale bilanciamento e ribilanciamento, attingendo sia alla realtà interna, perché si basa sulla capacità immaginativa, sia quella esterna, perché richiede il contatto con il contesto e con gli altri, dunque promuove il senso di integrità e l’adattamento creativo, individuati da Perls come l’esito dei percorsi di Psicoterapia della Gestalt (Perls, Hefferline & Goodman, 1951).

L’adattamento creativo è un costrutto centrale del processo di cambiamento di comportamenti appresi in precedenza, che possono anche essersi rivelati efficaci in passato, ma che se riproposti per fronteggiare il problema attuale, potrebbero risultare controproducenti (Ruckert, 2001). Molti comportamenti, infatti, sono orientati da esperienze che risalgono a periodi precedenti della storia (per esempio, l’infanzia) e che sono state affrontate con strategie coerenti con la propria età e la situazione, ma che sono in seguito state interiorizzate e vengono riproposte anche in età adulta. Il paziente, infatti, può sperimentare una difficoltà a cambiarle, impedendosi di adattarsi in modo creativo a nuove condizioni e fasi del ciclo di vita. La psicoterapia, tuttavia, può essere uno strumento di aiuto in questo. Nella fattispecie, la Psicoterapia della Gestalt Espressiva fa propria questa visione rifiutando protocolli rigidi e standardizzati, da applicare meccanicamente: è un percorso in cui lo psicoterapeuta e il paziente cooperano creativamente per promuovere il cambiamento e sviluppare le potenzialità del paziente (Zinker, 2018).

Questo processo è accompagnato, da parte dello psicoterapeuta e del paziente, da piacere e attesa fiduciosa, in quanto lo psicoterapeuta, per primo, è ottimista sull’esito del processo imparando a coltivare la pazienza per non affrettare intuizioni o soluzioni dei pazienti. Egli è ottimista sul fatto che il paziente vi giungerà, ma non lo spinge verso il risultato, poiché priverebbe il paziente del piacere del viaggio (Zinker, 2018).

Quando il percorso, oltre ad essere creativo, si tinge di arte, poiché prevede il ricorso a mediatori attraverso cui creare un’opera, tale percorso diventa espressivo. Questo significa che la relazione di cura con i mediatori artistici promuove il benessere e l’attivazione delle risorse attraverso la creazione artistica, dove lo psicoterapeuta rivolge l’attenzione al processo più che al prodotto, poiché il processo di creazione consente di acquisire nuove competenze e di esprimere la propria interiorità in maniera funzionale e positiva (Caterina, 2005).

La Psicoterapia della Gestalt Espressiva si basa sull’idea che il pensiero e le emozioni siano delle “forme” che possono essere plasmate proprio attraverso il lavoro creativo (Acocella & Rossi, 2013). In quest’ottica, non vi è una separazione netta tra l’artista e la persona comune, poiché chiunque può sviluppare la propria creatività, trovando un campo di applicazione adatto ad essa.

Dal punto di vista storico, le prime forme di relazione di cura basate su mediatori artistici possono essere fatte risalire all’origine stessa dell’arte, poiché essa aveva, come scopo originario, proprio l’espressione delle proprie emozioni nascoste. In ambito psicologico, si deve a Freud (1910) una prima concettualizzazione degli effetti terapeutici dell’arte. Secondo il padre della psicoanalisi, l’espressione artistica consentiva di entrare in contatto con la dimensione inconscia della psiche, manifestando, in maniera codificata e attraverso l’elemento estetico, pulsioni aggressive o di natura sessuale. L’arte costituiva, dunque, una modalità per “sublimare” le proprie pulsioni, che altrimenti sarebbero state considerate inaccettabili sul piano morale e sociale.

Successivamente, nella prima metà del Novecento, diversi figure, tra cui Margaret Naumburg (1928), iniziarono a esplorare in maniera più concreta e tra loro indipendente i benefici dell’utilizzo terapeutico dell’arte, sia per l’elaborazione delle esperienze traumatiche, sia per l’espressione libera della personalità e delle proprie potenzialità. La Naumburg (1928), in particolare, concepiva il processo creativo come affine alla “terapia della parola”, ma in grado di connettersi in maniera simbolica, e non letterale, alla personalità, riuscendo in questo modo ad esprimere la dimensione inconscia, che non sempre trova espressione attraverso le parole.

Mentre in Europa si esplorava la relazione tra l’arte e l’espressione di emozioni e fantasie inconsce, negli Stati Uniti, Menninger e figli (1956) fondarono, negli anni Venti, un ospedale dedicato alla cura dei pazienti psichiatrici che prevedeva, come strategia primaria di sostegno, l’utilizzo di diversi mediatori artistici. In questo modo, venne a crearsi un corpus di ricerche che, sebbene eterogeneo, gettò le basi per una prima descrizione della psicoterapia a mediazione artistica disciplina a sé stante.

L’utilizzo dei mediatori artistici nelle relazioni di cura è stato descritto per la prima volta da Adrian Hill (1942), un artista che ha riconosciuto le potenzialità terapeutiche dell’arte e le ha sperimentate in prima persona, in quanto paziente affetto da tubercolosi, curato preso il King Edward VII Sanatorium in Inghilterra (Bitonte & De Santo, 2014). Durante la degenza, si dedicò alla pittura, coinvolgendo altri pazienti, che dichiararono di aver riportato benefici da quell’attività. Hill spiegò tali benefici in termini "catartici", perché l’espressione delle emozioni attraverso la pittura consentiva ai degenti di liberarsi dai conflitti, di distogliere l’attenzione dalla malattia e di spostarla sulle parti sane. Dalle prime intuizioni e sperimentazioni ancora naif di Hill, il ricorso ai mediatori artistici nelle relazioni di cura si è svoluto, assumendo oggi molteplici varianti (Cheng, Elamin, May & Kennedy, 2021).

I mediatori artistici, infatti, iniziarono ad essere adottati da psicologi, psichiatri ed educatori che avevano potuto osservare gli effetti benefici dell’utilizzo dell’arte nei setting clinici. Gradualmente, teorie e pratiche si sono arricchite dei contributi di autori di differente orientamento, tra cui, in particolare, gli psicoterapeuti della Gestalt Espressiva.  Essi si concentrano sul significato dell’opera creata e sul processo di creazione, piuttosto che sulla qualità dell’opera prodotta, che non viene sottoposta a una valutazione basata su criteri estetici o tecnici (Case & Daley, 2014). Per questo, l’utilizzo dei mediatori artistici non richiede ai pazienti nessuna abilità artistica e può essere attuato ad ogni età.

 

Bibliografia

  • Acocella, A. M., & Rossi, O. (2013). Le nuove arti terapie. Percorsi nella relazione d’aiuto. Milano: FrancoAngeli.
  • Bitonte, R. A., & De Santo, M. (2014). Art therapy: an underutilized, yet effective tool. Mental Illness, 6(1), 5354.
  • Case, C., Daley, T. (2014). The Handbook of Art Therapy, 3rd ed., pp. 1–12. East Sussex (UK): Routledge, Taylor & Francis Group.
  • Caterina, R. (2005). Che cosa sono le arti-terapie. Roma: Carocci.
  • Cheng, C., Elamin, M., May, H., & Kennedy, M. (2021). Drawing on emotions: The evolving role of art therapy. Irish Journal of Psychological Medicine, 1-3.
  • Ciornai, S. (2015). Gestalt art therapy: a path to consciousness expansion. In D. E. Gussak, M. L. Rosal (Eds.), The Wiley handbook of art therapy (pp. 47-56). New York (NY): Wiley.
  • Freud, S. (1910). Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci. In Opere, vol. 6. Casi clinici (1909-1912). Torino: Bollati Boringhieri, 1989.
  • Hill, A. (1942). Art versus illness. London (UK): Allen & Unwin.
  • Menninger, K. A. (1956). A guide to psychiatric books, with some suggested reading lists. The Menninger Clinic monograph series. New York: ‎ Grune & Stratton.
  • Naumburg, M. (1928). The child and the world: Dialogues in modern education. New York (NY): Harcourt Brace.
  • Perls, F. S., Hefferline, R. E., & Goodman, P. (1951). Gestalt Therapy Excitement and Growth in the Human Personality. New York: Dell.
  • Ruckert, J. (2001). The Space for Creativity in Gestalt Therapy: Commentary on Nancy Amendt-Lyon’s Paper. Gestalt Review5(4), 249-255.
  • Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando, 2006.