«La terapia strategica è un intervento terapeutico usualmente breve, orientato all’estinzione dei sintomi e alla risoluzione del problema/i presentato dal paziente/i. Questo approccio non è una terapia cognitiva ma una ristrutturazione e modifica il modo di percepire la realtà e le derivanti reazioni comportamentali del paziente/i» (Nardone, Watzlawick).
Il modello strategico, mirando alla risoluzione dei problemi umani attraverso l’attuazione di strategie predeterminate, permette di intervenire in maniera attiva, sul mondo e sui modi di rappresentare le aree oggetto di scelta del soggetto, di fargli acquisire progressivamente maggiore padronanza ed infine di “dimetterlo” con un repertorio di nuove soluzioni, che ampliano la sua capacità di reagire e di gestire la relazione con il sistema.
L'approccio strategico parte dall'assunzione che qualunque realtà viviamo è il prodotto della relazione tra noi stessi e ciò che sperimentiamo quindi, l’unico approccio alla conoscenza del mondo interno del soggetto può avvenire solo per mezzo della scoperta dei costrutti soggettivi ed interpersonali che l’individuo continuamente e incessantemente costruisce.
Non esistono rappresentazioni dei fatti contenute in depositi di memoria, ma esiste un cervello creatore di relazioni: si sottolinea, in tal modo, il carattere esclusivamente intersoggettivo ed intrasoggettivo del processo di conoscenza.
La realtà è il prodotto di un’elaborazione dell’universo: non esiste una realtà assoluta e universale ma tante realtà, il cui significato è soggettivamente costruito nelle interazioni con altri dialoganti in una continua attribuzione di significato.
Il modello strategico-costruttivista, quindi, propone la transizione da un’epistemologia della rappresentazione ad una epistemologia della costruzione per mezzo della quale potersi impadronire del linguaggio del soggetto, riuscire ad utilizzare il suo modo di concettualizzare la realtà
Attraverso la conoscenza dei meccanismi di costruzione della realtà e di elaborazione delle informazioni attuati dall’individuo, il terapeuta può essere in grado di conoscere ciò che è problematico, disadattivo e disfunzionale, che il problema non ha valore assoluto, non è insito per natura nelle cose, ma dipende da una determinata situazione e dal punto di vista che il soggetto adotta.
La situazione problematica che l’individuo si trova a fronteggiare non è determinata e causata dalle proprietà intrinseche ad essa, ma è connessa al significato, alla percezione, ed al valore che noi le attribuiamo. È la premessa che le cose dovrebbero essere in un certo modo a formare il problema e a richiedere il cambiamento, e non il modo in cui le cose sono.
Spesso, sono proprio i tentativi che si sono attuati nel passato al fine di risolvere una difficoltà, che contribuiscono alla creazione ed al mantenimento del problema stesso: l’azione decisiva è applicata alla soluzione tentata e non alla difficoltà stessa.
Infatti, in situazioni difficili può accadere che si applichino soluzioni che invece di provocare il cambiamento, formano il problema stesso ad esempio: se un soggetto si sente insicuro in situazioni in cui deve confrontarsi con gli altri, per affrontare il suo disagio cercherà di sforzarsi di comportarsi come dovrebbe e vorrebbe essere, cioè estroverso, attraente e divertente, diventando così innaturale e poco spontaneo e rendendolo ancora più impacciato, goffo e timido. Questa tentata soluzione, lo porterà, molto probabilmente ad aumentare il suo senso di insicurezza, ad alimentare la sua sensazione di disagio ed a innescare un circolo vizioso patologico.
La tentata soluzione è diventato il problema.
Il contesto consulenziale mira, allora, a raggiungere l’obiettivo di produrre continue ristrutturazioni, cioè di costruire significati altri rispetto a quelli già conosciuti e sperimentati dal cliente, a partire dalle sue tentate soluzioni per arrivare alla generazione di alternative condivise.
Ciò permette di indurre nel soggetto una ricodificazione degli usuali schemi interpretativi e rappresentazionali della sua realtà attraverso lo spostamento del vertice osservativo (Watzlawick et al.) e di modificare la struttura concettuale ed emozionale dell’evento soggettivamente vissuto in quanto si ottiene una riattribuzione del significato.
All’interno dello spazio terapeutico, quindi, il fine principale è quello di generare ristrutturazioni, di sperimentare un codice ed una visione differente e “de-strutturante”: affinché possa avvenire questa ri-definizione, questa ri-strutturazione del mondo interno del soggetto, il terapeuta deve immergersi nel linguaggio del paziente, utilizzarlo e farlo proprio, indirizzando, in tal modo, il soggetto verso una direzione alternativa ed evolutiva.
Il terapeuta impara, così, un nuovo linguaggio, quello del paziente che porterà entrambi alla costruzione di nuove regole e di un nuovo linguaggio che interromperà il circolo vizioso tra problema e soluzione: la realtà del paziente viene accettata, come una delle possibili e si cercherà di modificarla cambiando le opinioni su di essa, al fine di reinventarla in modo da vivere un’esistenza più matura e piena ed un maggiore equilibrio fisico, emotivo, affettivo e relazionale.